Il ciclone Vaia che ha colpito nei giorni 29 e 30 ottobre 2018 una vasta area delle Alpi orientali ha segnato un punto di non ritorno nella manifestazione e consapevolezza del cambiamento climatico. La magnitudo del fenomeno, la sua durata e l’estensione della zona colpita fanno pensare ad un salto di qualità delle manifestazioni meteorologiche correlate al cambiamento climatico. In particolare il vento assurge a simbolo di tale punto di svolta (turning point); i testimoni quasi unanimi hanno sottolineato che frane e alluvioni erano accadute e sono state in qualche modo inquadrate (framed), ma un vento così forte, persistente e in grado di abbattere un altro dei simboli della montagna (ampie porzioni di bosco) non si era mai visto. Se il vento assurge a simbolo del cambiamento climatico, l’altro elemento intrigante è l’intreccio che si ha fra l’evoluzione degli ambienti a bassa antropizzazione e le misure socio-tecniche adottate dalle popolazioni umane e organizzative per contrastarlo. In gergo si dice co-evoluzione, approccio che diffida di ogni determinismo tecnico o ambientale. Un esempio dovrebbe aiutare a capire. L’assetto forestale colpito dal ciclone Vaia non ha nulla di naturale nel senso di wilderness, ma è il frutto di successive scelte e equilibri che si sono avverati in quelle aree. È evidente che la densità degli alberi, il fatto di essere sempreverdi, la loro conquista di aree un tempo a prato ha modificato l’impatto del vento forte. Densità, composizione delle specie arboree e recente riconquista del bosco sono anche frutto di azioni o omissioni degli attori umani. Banalmente gli assetti economici internazionali influiscono sulla selvicoltura e industria del legno di quelle aree. L’aria è una delle componenti fondamenti dell’ambiente. Con il fuoco, il suolo e l’acqua va a comporre la base materiale dell’esistenza.
Tale composizione ha origine nella filosofia greca antica, ma ci piace ricordare il compianto Osvaldo Pieroni, uno dei primi sociologi dell’ambiente italiani, che la usò per titolare un suo libro (Pieroni 2002). Ebbene nella comunità di pratiche ‘aree fragili’ il fuoco o energia è stato trattato in uno dei primi convegni (2007), la terra nel 2013 (Corsa alla terra) e l’acqua l’anno successivo (Smart waters. Cooperazione e sicurezza idrica nelle aree fragili). Mancava l’aria. Componente che viene proposta per il convegno 2020, il 15° della serie, con il solito taglio analitico e promozionale: a) verificare se l’atmosfera ha una rilevanza speciale nelle aree rurali, mettere in luce i problemi, b) vedere se e come vi sono risposte pro-attive.
Dimensioni rilevanti
Nel titolo il vento è l’elemento simbolico, quasi poetico; l’aria rimanda alla base fisico-materiale che permette la vita, mentre il fumo rappresenta l’aspetto problematico, il follow-up socio-tecnico dell’uso dell’aria. Notoriamente, il cambiamento climatico è provocato da anidride carbonica liberata dalla combustione delle fonti fossili. Questa non ha colore né odore; però il fumo è il simbolo della crisi ambientale ben prima che emergesse il problema del surriscaldamento del pianeta. Something in air rende bene sia la natura impalpabile dell’inquinamento atmosferico ed anche le difficoltà a coglierlo.
Una buona strategia è spacchettare il fenomeno per figure rilevanti nelle aree rurali:
Il vento non può non essere associato alla produzione di energia eolica. Le pale soprattutto in Italia sono collocate in aree emblematicamente ‘marginali’, come i valichi alpini o i bordi rurali dei sistemi urbani
Il pm10, particolato al di sotto di 10 micron, è fenomeno che fa ‘impazzire’ le amministrazioni cittadine; ma vi è ormai consapevolezza che in taluni contesti, come la pianura padana, esso sia diffuso anche in aree rurali.
Correlato a questo fenomeno vi è da considerare la distribuzione delle centraline che raramente sono posizionate in aree rurali, le quali potrebbero sopperire con sistemi di automonitoraggio -> esperimenti di rural citizen science
L’ampia diffusione nelle aree rurali delle stufe e caldaie a legna o a pellet è fattore che incrementa la produzione di polveri sottili nell’aria, che si aggrava nel caso di sistemi di combustione poco efficienti o di pellet di cattiva qualità -> teleriscaldamento da biomasse
Il something in the air impalpabile riguarda spesso gli odori derivanti da allevamenti intensivi, impianti di depurazione e compostaggio, cementifici. Questi impianti raramente sono in aree densamente abitate, perché la pressione e le proteste dei cittadini diventano difficilmente contenibili. Nelle aree a bassa densità la massa critica della protesta risulta inferiore a parità di disturbo odorifero
Le zone costiere, come bordi, creano brezze che hanno valenze positive per la salute, la pratica di certi sport (windsurf, parapendio….), il senso generale di piacere. Questo fattore è largamente sfruttato dall’industria turistica che ha creato in gran parte delle zone costiere vere e proprie condensazioni urbane. Ciò nonostante, non possiamo dimenticare gli effetti concomitanti negativi, come lo scirocco e l’acqua alta sulle zone costiere, tipicamente Venezia, ma non solo
Le aree dove si scontrano correnti d’aria di diversa temperatura sono più soggette a eventi meteorologici estremi. Tali situazioni non colpiscono meccanicamente sempre le stesse aree. Però si può pensare che alcune siano maggiormente predisposte. Ciò implica un paziente lavoro di delimitazione probabilistica di zone che possono non corrispondere alle classificazioni urbano-rurali o pianura-rilievo.
Un problema la cui dimensione e forma è da precisare riguarda le piogge acide e la loro influenza su boschi e prati e quindi sulla catena alimentare. Anche la presenza abnorme di ozono è da capire se abbia una diffusione in senso rurale. In ogni caso il rurale è da intendersi come variabile di sfondo che necessita di diverse precisazioni.
I problemi di emissioni di gas climateranti di allevamenti intensivi di animali generalmente posizionati in aree rurali sia per ridurre impatto degli odori sia le proteste dei residenti; entrambi i fenomeni sono già menzionati nei punti precedenti.
Un aspetto positivo delle aree rurali è la prevenzione delle ondate/isole di calore. Che fanno molti morti e pochi danni alle cose; il contrario delle alluvioni che fanno pochi morti ma molti danni alle cose.
Comitato organizzatore: Giorgio Osti, Giovanni Carrosio, Giovanni Osti e Sara Fabbro.
per partecipare al convegno iscrivetevi su eventbrite
La comunità di pratiche Aree Fragili si trova ad operare in un contesto che appare radicalmente e improvvisamente cambiato. I luoghi lasciati indietro, the places left behind – come li chiamano molti studiosi a livello internazionale – stanno manifestando forti segnali di malessere, che sembrano orientarsi verso la ricerca di comunità chiuse, il rifiuto della diversità, lo scetticismo e la repulsione nei confronti del sapere scientifico, l’intolleranza, la domanda di uomini forti capaci di ristabilire l’ordine, la contrapposizione tra un popolo puro e una élite corrotta. Le nuove geografie politiche emergenti in tutti i paesi occidentali dove si è andati al voto negli ultimi mesi, sembrano confermare questo orientamento.
Se questo è vero, per chi è impegnato sul tema delle aree rurali fragili si pongono delle domande nuove.
Il convegno Aree Fragili 2019 parte da qui: quali sono le cause di questa dinamica, che in molti chiamano neo-populismo o populismo autoritario?
Esiste anche in Italia, come sembra acclarato in tanti altri stati, una dimensione rurale di questa tendenza? Se sì, quale è la situazione nelle aree fragili? Abbiamo segnali tangibili nel nostro lavoro di campo e di ricerca, oltre che dai dati che emergono dalle analisi politologiche? Quali azioni si possono mettere in campo, quali politiche, quale nuovo impegno per le organizzazioni della società civile?
La serie di convegni sulle aree fragili che ormai si prolunga dal 2006 ha avuto come fattore fondante la ricerca di ‘risorse’ specifiche per irrobustire o risollevare territori toccati da diverse forme di depauperamento. In primis quello umano dovuto all’emigrazione che con diverse ondate affligge da oltre un secolo quasi tutte le aree rurali italiane. In secondo luogo vi sono le risorse materiali. In tal senso, si è parlato nei convegni precedenti di smart waters, di energia locale, di biodiversità. Nel depauperamento si sono considerate anche risorse immateriali come la conoscenza, l’expertise e l’arte (convegno 2017).
L’assunto che è tali risorse debbano o essere riscoperte in loco (sviluppo endogeno) o importate attraverso una poderosa azione di marketing territoriale, che arriva a coinvolgere anche gli immigrati dai paesi poveri. Si tratta in altre parole di ‘resource and place based development’. I luoghi diventano il perno di tutto il movimento per lo sviluppo umano, inteso come valorizzazione della comunità locale. Questo approccio resource and place based è complementare a quello centrato sulle ‘relazioni’ (vedasi questa dicotomia nella letteratura in campo organizzativo: Bonazzi 2003).
Non basta infatti avere ottime risorse e facoltà in loco se poi queste sono sconosciute, svendute o delegittimate. Alla base della loro capacità di produrre sviluppo integrale serve un’opera di riconoscimento esterno, su una scala più ampia, con territori anche lontani. La teoria della dipendenza ha formalizzato questo aspetto da lungo tempo, anche se in chiave negativa, come denuncia della espropriazione delle risorse della periferia da parte di centri. Il modello centro-periferia è un esempio di coniugazione di elementi relazionali e spaziali. Esso può essere un ottimo punto di partenza per impostare il nuovo convegno sulle aree fragili, immaginando un sistematico e indebito prelievo di risorse da parte di aree forti rispetto a quelle deboli.
Keynote speaker del convegno: Jan Douwe van der Ploeg
Gruppo di riferimento (sostituisce il comitato scientifico, dà indicazioni sui casi esemplari, valuta gli abstract di chi propone una presentazione)
Filippo Barbera, Fabio Berti, Gabriele Blasutig, Giovanni Bridi, Nunzia Borrelli, Emanuela Bozzini, Francesco Caruso, Carlo Colloca, Alessandra Corrado, Francesco Di Iacovo, Fiammetta Fanizza, Maria Fonte, Francesca Forno, Giampiero Girardi, Natalia Magnani, Giovanni Paganuzzi, Piero Magri, Paolo Pastore, Domenico Perrotta, Davide Pettenella, Pierluigi Milone, Andrea Povellato, Benedetto Rocchi, Devi Sacchetto, Ivano Scotti, Simone Sillani, Francesco Silvestri, Pierluigi Stopelli, Francesco Vanni, Flaminia Ventura, Moreno Zago.
Gruppo organizzatore
Chiara Zanetti, Giorgio Osti, Luca Martinelli, Sara Morelli, Daniela Luisi, Giovanni Carrosio
Partner istituzionali
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali-Università di Trieste, Fondazione Finanza Etica-BPE, Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali, Università di Padova, Cooperativa Sociale Porto Alegre-Rovigo.
Lista in ordine alfabetico per autore/i dell’abstract
Il termine divario o gap è provocatorio, la cultura non si misura su una scala, però le gerarchie del sapere esistono e pesano nelle relazioni fra persone e fra territori.
Il campo da esplorare per le aree fragili è vastissimo, variegato, con qualche insidia che va dall’idea che la cultura sia tutto fino al suo contrario, che abbia un rango culturale anche la più banale delle manifestazioni ludiche. È evidente poi che intervengono tradizioni disciplinari diverse, ognuna con un suo linguaggio e bagaglio concettuale. Ma la rilevanza del tema è enorme se solo si pensa che a suo tempo l’Unione Europea ha puntato molto sulla società della conoscenza per fondare un rinascimento delle campagne e delle periferie.
La cultura è un potente strumento di comunicazione a va analizzata anche rispetto ad una funzione per le aree fragili.
Sì perché la scelta del tema – divario culturale – ha finalità pratiche e politiche. Serve a verificare se e quanto la cultura è uno strumento di crescita per comunità rurali definibili come interne o marginali, poco resilienti o fragili.
Si useranno tre criteri:
1) la pertinenza della cultura per la comunità di pratiche ‘aree fragili’ ovvero se la cultura sia una questione (issue) che richiede risposte;
2) i grandi cambiamenti culturali avvenuti nelle aree rurali fragili, e infine;
3) campi di intervento urgenti e promettenti sulla scia della tradizione dei convegni aree fragili pronti a descrivere carenze e segni di cambiamento in senso positivo.
Le aree rurali fragili hanno un welfare rarefatto. L’alta quota di popolazione anziana assorbe molte risorse pubbliche e private, mentre i servizi per bambini e giovani languono. Si crea un welfare sbilanciato sui trasferimenti monetari piuttosto che sui servizi interpersonali.
Non mancano risposte innovative: la Strategia Aree Interne, gli agri-asili, i servizi domiciliari, le unità di cura locali.
Serve però uno scatto nuovo, basato su mobilità, parziale centralizzazione dei servizi e valorizzazione delle risorse naturali locali. Su carenze e prospettive del welfare rurale è costruito l’XI convegno aree fragili, per la prima volta aperto a contributi stranieri.
La tutela della biodiversità è posta al centro dell’agenda politica di istituzioni europee e nazionali. Essa rappresenta un baluardo a difesa delle specie viventi, delle comunità umane e del benessere delle future generazioni.
La biodiversità risulta impoverita sia in contesti molto urbanizzati che in aree rurali in via di abbandono. L’azione umana è segnata da ambiguità e ignoranza rispetto ai valori della biodiversità.
Da questo nasce il titolo del convegno: biodiversità nascosta di cui svelare gli assunti culturali, usi commerciali sostenibili, il suo valore per la socialità.
Il convegno, organizzato attraverso un call for cases nazionale, ha raccolto decine di esperienze virtuose che segnalano la fecondità del tema biodiversità per le aree fragili.